La Parola del Parroco
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06 Giugno 2021
“Siamo sulla stessa barca”. Aveva detto così papa Francesco in quella memorabile sera del 27 marzo 2020, mettendo in luce che cosa ci stava insegnando la pandemia in atto. Voleva sottolineare che quello che stava capitando ci ha fatto comprendere che le sorti di ciascuna persona e di ciascun popolo erano legate assieme. Era certo una constatazione (il virus non fa differenze tra persone o popoli) ma era anche un auspicio e un invito di fronte all’emergere di egoismi, personali e nazionali, ciascuno preoccupato di salvare se stesso o la propria patria, mostrandosi indifferente alla condizione degli altri. Molti hanno ammirato quel discorso del papa; non tutti sono stati disposti ad accogliere quell’appello (penso per esempio – a livello internazionale – alla questione del brevetto sui vaccini). Alla fine, sembra che lo slogan “siamo tutti sulla stessa barca” non coincida con l’ideale di “remare tutti nella stessa direzione” e soprattutto allo stesso ritmo. Anche nel piccolo dei nostri paesi vedo la tentazione di chiudersi nel proprio egoismo (personale, di famiglia, di enti e di paesi) pensando solo al proprio beneficio, al proprio comodo, al proprio tornaconto, poco disposti a intendersi, a confrontarsi e a collaborare. Posso comprendere che le fatiche di questi mesi e i sacrifici che tutti abbiamo dovuto affrontare (a partire dalle restrizioni imposte per il bene di tutti) in molti non trovino più pazienza e capacità di sopportazione (anche nel continuare a indossare la mascherina, a tenere la giusta distanza…). Tuttavia, ciò non può portare a chiudere gli occhi davanti alla realtà (nella settimana passata abbiamo ancora pianto persone morte per il virus…) e a fare i conti con essa. Dobbiamo chiederci se abbiamo compreso la necessità che sacrificare qualcosa per il bene comune non è emergenza solo di questo duro periodo, ma la condizione per costruire una società giusta. Non eravamo noi a lamentarci di una società che vede il prevalere degli interessi personali o di parti a discapito di quelli della collettività? Se il tornare alla “normalità” che alcuni invocano (a parer mio, ingenuamente) è tornare a quel tipo di società, io non ci sto. Non perdiamo l’occasione per iniziare uno stile nuovo, facendo tesoro di quello che abbiamo imparato. E in ciò noi cristiani siamo chiamati a dare il “buon esempio”: la Chiesa deve essere presente nel mondo come il segno della possibile comunione, intesa, aiuto reciproco, unità. E ciò è quello che deve vedersi sia all’interno della nostra Comunità che deve ancora camminare a lungo per essere tale, visto il sussistere di anacronistici campanilismi; sia all’esterno creando collaborazioni e sinergie con le varie realtà della società civile, approntando tavoli di confronto che ci vedano poi lavorare assieme in progetti e nello stesso tempo imprimano uno stile nuovo per andare oltre al proprio naso.