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Per vivere meglio la Celebrazione Eucaristica: i "grandi testi" - 2
22 Aprile 2018
Poiché nella liturgia dei primi secoli la professione di fede
era strettamente associata al rito del battesimo, e l’apprendimento del Simbolo avveniva nell’ultimo tratto della preparazione
al battesimo, il Credo entrò nella messa festiva
solo più tardi e a poco a poco: a Costantinopoli, all’inizio del sec. VI; in
Spagna, alla fine del sec. VI; in Gallia, all’epoca di Carlo Magno; a Milano,
forse già nel sec. IX; a Roma, solo all’inizio del sec. XI. In occidente poi il
testo originario si arricchì dell’affermazione che lo Spirito Santo «procede» oltre che «dal Padre» anche «dal Figlio» (Filioque), e questo
creò la premessa per una lacerazione tra Oriente e Occidente che permane fino a
oggi.
Anche la sua collocazione nella messa ha conosciuto nella storia
differenze significative come emerge ancora oggi dal confronto tra il rito
romano e il rito ambrosiano. Infatti, mentre nella liturgia romana il Credo è proclamato al termine dell’omelia, dopo aver
ascoltato la parola di Dio e il suo commento, perché «la fede viene dall’ascolto» (Rm 10, 17), nella liturgia
ambrosiana, in questo più vicina all’uso orientale, il Credo sta tra la presentazione dei doni e l’orazione
sulle offerte, alle soglie della preghiera eucaristica, «quasi a significare – come scriveva l’arcivescovo
Giovanni Colombo nel piano pastorale 1978/79 – che l’adesione dello spirito
credente alle tre Persone divine, che si sono manifestate nella storia della
salvezza, è la preparazione più alta e più necessaria a entrare nel cuore del
mistero eucaristico, cui si partecipa». Detto in altro modo: la «regola
della fede» professata nel Credo, per gli uni
(i romani) è, anzitutto, il punto di arrivo dell’ascolto della Parola, mentre
per gli altri (gli ambrosiani) è, primariamente, la porta di accesso al mistero
eucaristico. Di fatto, queste due prospettive, pur con i loro rispettivi accenti,
si completano, si illuminano e si arricchiscono vicendevolmente.
La parola Credo, ripetuta
quattro volte, scandisce il testo del Simbolo in quattro sezioni: nelle prime
tre il fedele professa la sua fede nelle tre Persone della Trinità, che sono l’unico
Dio (credo in un solo Dio, Padre onnipotente; credo in un solo Signore,
Gesù Cristo; credo nello Spirito Santo); nell’ultima, professa la
Chiesa (credo la Chiesa) nelle sue caratteristiche essenziali
(l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità), nel suo fondamento
battesimale e nella sua speranza escatologica.
La parte più sviluppata è la seconda, quella relativa a «Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio», prima
contemplato nella sostanziale condivisione della divinità del Padre, così come
il concilio di Nicea aveva chiarito («generato, non creato, della
stessa sostanza del Padre»), e poi narrato nei misteri della sua
vita terrena e celeste: l’incarnazione «nel seno della vergine Maria»,
la crocifissione, la morte e la sepoltura, la risurrezione e l’ascensione al
cielo, la sua seconda venuta nella gloria come giudice dei vivi e dei morti. In
questa sezione tutti devono accompagnare le parole «e per
opera dello Spirito Santo… si è fatto uomo», con l’inchino o, alla
VI domenica di Avvento, a Natale e all’Annunciazione (25 marzo), con la
genuflessione. Sono queste due posture del corpo necessarie a sottolineare il
punto capitale della fede cristiana, perché nella carne assunta dal Verbo noi
abbiamo «corporalmente – come scrive l’apostolo Paolo – tutta la pienezza della divinità» (Col 2, 9). Per il
resto si sta in piedi. Ciascuno parla in prima persona (io credo), ma la recitazione comune ne fa un atto
profondamente corale ed ecclesiale. Naturalmente occorrerà aver cura di andare
insieme così che l’amalgama delle voci manifesti la fusione delle menti e dei
cuori. L’impegno a eseguirlo in canto è meno stringente che per il Gloria, ma è comunque una buona cosa che ogni comunità
sappia cantare anche il Credo, sia in latino
che in italiano, nella sua totalità o almeno nei suoi passaggi fondamentali (i
quattro «credo»). Un bel risalto va dato infine all’Amen finale, che ben riassume tutta la precedente
professione di fede.